LINGUA LATINA: CONOSCENZA DEL PASSATO PER INTERPRETARE IL PRESENTE E PROGETTARE IL FUTURO Salvete omnes! Hodie latinitas in toto orbe terrarum a discipulis magistrisque omnibusque litteras amantibus celebratur Et ego, Truentini lycei Augusto Capriotti dicati discipulos latinam linguam docens, breviter cur huius sermonis studium diligam, magnorum auctorum sententiarum auxilio, italice scribam. Se volessi ridar vita attiva e non solo contemplativa all’insegnamento della lingua latina ed esprimermi direttamente come Cicerone e Cesare (ma anche Agostino, Dante, Erasmo, Galileo e Pascoli, a mero titolo esemplificativo), è così che potrei iniziare questo articolo, dedicato alla Giornata Mondiale del Latino ideata dalla AICC (Associazione Italiana Cultura Classica) e celebrata quest’anno i giorni 13 e 14 aprile
Poi certo, guardando al quadro orario del liceo linguistico e alle due ore settimanali, limitate al solo primo biennio, a disposizione ormai da 13 anni per questa disciplina (che pure caratterizza – o caratterizzerebbe – gran parte dei percorsi liceali) mi accorgerei (e mi accorgo, non c’è che dire) che l’incipit forse sarebbe un po’ troppo altisonante. Insomma, il rischio di finire come la rana che si credeva un bue è davvero alto, molto alto. Eppure sono tanti i motivi per esprimere gratitudine a questa lingua, sottolineando, per quanto possibile, l’importanza del suo studio anche alle latitudini di una scuola come la nostra, dove ex lege la sua posizione è alquanto ancillare. Basterebbe già considerare come in questo stesso momento stia scrivendo servendomi di una mutazione genetica di quel sermo vulgaris parlato dalla gente di mezza Europa fino al tardoantico e all’alto medioevo. E lo stesso vale per due lingue straniere e almeno un terzo delle quattro previste dal nostro istituto in quest’anno scolastico e delle cinque insegnate dal prossimo. Ma andiamo oltre: la riflessione critica sui meccanismi linguistici senza scadere nel mero tecnicismo fine a se stesso – ce l’ha insegnato Tullio De Mauro - è strumento essenziale per conoscere e comprendere la società ed esercitare il proprio diritto di cittadinanza. Questo vale per le lingue vive, questo vale anche per quelle “morte”. Quanto però vorrei soprattutto mettere in rilievo è che il latino non è solo parisillabi e imparisillabi della terza declinazione, dic duc fac fer e altre particolarità o presunte tali. Il latino è, soprattutto, lo strumento vivo impiegato per secoli e secoli per scrivere e riportare notizie, storie, racconti, idee politiche, sentimenti, odi e amori. È per questo che intendo soffiare le candeline accese oggi dall’AICC al suono delle parole del carme 5 di quel romano di Verona di nome Gaio Valerio Catullo, umano troppo umano e triviale e contemporaneamente doctus, vissuto nell’urbe dei pubblici officia e negotia in direzione ostinata e contraria eppure altamente morale, se non moralistica, in quell’età di crisi più che convulsa che è stata il I secolo a.C. Vivamus mea Lesbia, atque amemus, / rumoresque senum severiorum / omnes unius aestimemus assis! / Soles occidere et redire possunt: / nobis cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda. / Da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum. / Dein, cum milia multa fecerimus, / conturbabimus illa, ne sciamus, / aut ne quis malus invidere possit, / cum tantum sciat esse basiorum. Tra le tante traduzioni di questa poesia, riportata spesso anche dalle antologie di italiano del primo biennio, si potrebbe citare quella elegante e filologicamente esatta del latinista Luca Canali. Oppure quella scostumata e scorretta, quindi coerentemente catulliana, di Guido Ceronetti. Tuttavia quella che meglio mi rende l’incalzante invito all’amore, ancor più di fronte all’ineluttabilità della morte contrapposta all’eterna ciclicità della natura, è quella di Salvatore Quasimodo del 1945: Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo, / e ogni mormorio perfido dei vecchi / valga per noi la più vile moneta. / Il giorno può morire e poi risorgere, / ma quando muore il nostro breve giorno, / una notte infinita dormiremo. / Tu dammi mille baci, e quindi cento, / poi dammene altri mille, e quindi cento, / quindi mille continui, e quindi cento. / E quando poi saranno mille e mille, / nasconderemo il loro vero numero, / che non getti il malocchio l’invidioso / per un numero di baci così alto. Ma non solo scrittori italiani (oltre che, naturalmente, specialisti e filologi) si sono confrontati con la poesia e il sentimento catulliano. Allora allarghiamo lo sguardo – lo richiede e lo consente il nostro specifico contesto scolastico plurilingue – alle traduzioni in versi o in prosa che autori inglesi, tedeschi, francesi, spagnoli e addirittura cinesi hanno dedicato a questo testo. Basti pensare a uno dei padri del romanticismo d’oltremanica, Samuel Taylor Coleridge, che così rende nel 1794, in distici in rima baciata, il carme 5: My Lesbia, let us love and live, / and to the winds, my Lesbia, give / each cold restraint, each boding fear / of age, and all its saws severe! / Yon sun now posting to the main / will set, - but ‘tis to rise again; - / But we, when once our little light / is set, must sleep in endless night. / Then come, with whom alone I’ll live, / a thousand kisses take and give! / Another thousand! - to the store / add hundreds – then a thousand more! / And when they to a million mount, / let confusion take the account - / that you, the number never knowing, / may continue still bestowing - / that I for joys may never pine, / which never can again be mine. Oppure allo scrittore tedesco Eduard Mörike, che in piena età Biedermeier, ovvero un’epoca di ripiegamento in sé della letteratura (e quindi di scelte tematiche meno pericolose, viste le repressioni politiche), all’interno di una Klassische Blumenlese pubblicata nel 1840 si cimenta con le parole catulliane in questo modo: Laß uns leben, mein Mädchen, und uns lieben, / und der mürrischen Alten üble Reden / auch nicht höher als einen Pfennig achten. / Sieh, die Sonne, sie geht und kehret wieder: / wir nur, geht uns das kurze Licht des Lebens / unter, schlafen dort eine lange Nacht durch. / Gib mir tausend und hunderttausend Küsse, / noch ein Tausend und noch ein Hunderttausend, / wieder tausend und aber hunderttausend! / Sind viel tausen geküßt, dann mischen wir sie / durcheinander, daß keins die Zahl mehr wisse / und kein Neider ein böses Stück uns spiele, / wenn er weiß, wie der Küsse gar so viel sind. Si può vedere lo stile da “bella infedele”, tipico delle traduzioni francesi del XIX secolo (e non solo), nel lavoro in prosa di tre anni prima (1837) di Charles Héguin de Guerle: Vivons pour nous aimer, ô ma Lesbie ! Et moquons-nous des vains murmures de la vieillesse morose. Le jour peut finir et renaître ; mais lorsqu’une fois s’est éteinte la flamme éphémère de notre vie, il nous faut tous dormir d’un sommeil éternel. Donne-moi donc mille baisers, ensuite cent, puis mille autres, puis cent autres, encore mille, encore cent ; alors, après des milliers de baisers pris et rendus, brouillons-en si bien le compte, qu’ignoré de nous-mêmes comme des jaloux, un si grand nombre de baisers ne puisse exciter leur envie. E mi piace chiudere questa carrellata di traduttori con due professori di altre latitudini. Il primo è il latinista spagnolo Bernardo Clariana, multa per gentes et multa per aequora vectus, come il Catullo del carme 101 (così caro a un altro esule, che nel 1803 ne offrì una straordinaria ripresa nel sonetto In morte del fratello Giovanni), trascinato “per molte genti e molti mari” dalla guerra civile spagnola e dalla sua opposizione alla dittatura franchista. È del 1954, pubblicata a New York, la sua traduzione, filologicamente attenta e contemporanemante poetica, di una selezione di testi catulliani, tra cui il 5, che così si apre: Vivamos, Lesbia mía, y amémonos / y los chismes des viejos criticones, / en un as valoremos todos juntos… L’altro è Li Yongyi, docente di Inglese all’università di Chongqing e “autodidatta entusiasta” della lingua latina, come si definisce sul portale Dickinson Classics Online (https://dco.dickinson.edu/index.php/) che raccoglie dal 2015 risorse e strumenti per l’apprendimento del latino e del greco per studenti cinesi. Li Yongyi ha tradotto in mandarino Catullo e Orazio e, con il supporto di enti statali della repubblica popolare, si sta ora cimentando con Lucrezio e Ovidio. Di fronte a questo exploit del mondo classico a Pechino e dintorni da un lato si può vedere la potenza espressiva di testi di duemila anni fa capaci di raggiungere lidi estremi. Certo, dall’altro si potrebbe anche notare una certa affinità tra lettura gerarchica dei concetti classici di maiores ed auctores col taoismo “autoritario” recuperato dall’attuale presidenza cinese. Del resto in un saggio del 1920T.S. Eliot scriveva che: “Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il passato al suo posto, con le sue definite differenze dal presente, e tuttavia in modo così vivo che esso sia presente a noi come il presente”. Credo che, pur nei suoi limiti orari, lo studio del latino possa aiutare anche i nostri studenti a rafforzare questo sguardo. |