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Laszlo Nemes, Il figlio di Saul
Scritto da prof. Massimo Scarponi   
sabato 23 aprile 2016

LocandinaRecensione di un film di grande valenza educativa e didattica sul campo di sterminio nazista di Auschwitz, film premiato con il Gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes 2015 e con l’Oscar per il miglior film straniero 2016. Il Comune di San Benedetto del Tronto, l’Isml di Ascoli Piceno, la Fondazione Libero Bizzarri hanno organizzato la proiezione del film il 3 aprile al teatro Concordia.

E’ un film duro, che ci trascina fin dal primo fotogramma nel vortice di una realtà caotica, confusa, orbitante attorno al protagonista Saul, centro di gravità permanente contro cui cozzano, urtano violentemente pezzi di realtà: corpi, oggetti, schegge di materia disanimata. Il viso di Saul, maschera oscura di ebreo del Sonderkommando, interpretato dall’attore ungherese Geza Rohring, ci trasmette il suo respiro pesante, il suo sudore penetrante, e ci riverbera da vicino, troppo vicino, il suo drammatico sconcerto, l’assoluta incomprensione dell’incarnazione storica del male. I nostri occhi non possono sfuggire a tutto ciò. Quando cercano scampo, svincolandosi dal magnetismo di Saul, la realtà sfuma in una nebbia irreale, in una dissolvenza onirica allucinata

La tecnica di regia sceglie opportunamente l’esasperazione espressionistica dei suoni, soggettivamente percepiti e interiorizzati in uno stordimento di sensazioni uditive.
Ma sono i corpi i veri protagonisti del film: corpi spogliati, ammassati, battuti, violati, umiliati; corpi vivi o morti, interi o inceneriti, distesi prima dell’autopsia o ammucchiati come stucke, pezzi in un montacarichi, scarti di vita minore dopo l’azione dello Zyklon B, il micidiale gas impiegato ad Auschwitz. E’ la desacralizzazione del corpo umano, è l’affermazione cieca del potere illimitato, del terrore collettivo. Sono corpi privi della tagliente luce caravaggesca, divina luce che riscatta gli ultimi dalle tenebre terrene. Nel film i corpi delle vittime sono uniformemente pallidi ed esangui, carne da macello, anche se “carne battezzata”, come direbbe Giovanni Verga.
La barbarie dei carnefici nazisti nega il rito primordiale della sepoltura, vitale elaborazione collettiva del lutto, necessario superamento della morte e culto della sopravvivenza; radice di ogni civiltà, di ogni legge consuetudinaria o scritta: questo tramandavano i Latini con il culto degli Dei Mani inchiodato sulle XII tavole. Poi, quando la legge degli uomini imbarbarisce, diviene lecita la trasgressione, la disobbedienza civile. A difesa della civiltà e della sacralità della vita si sfida il potere fino ad immolare se stessi. E’ l’esempio di Antigone, che seppellisce furtivamente il corpo del fratello Polinice, obbedendo alla superiore legge della pietas contro la dittatura dell’odio.
L’ossessione di Saul di seppellire il corpo di un bambino, un giovane adolescente che sceglie come figlio, è una sorta di adozione post-mortem. E’ il tentativo di preservare la sacralità dell’innocenza, il corpo di un bambino che va accudito nel rispetto dei riti antichi. Così può diventare simbolo del riscatto dell’ intero popolo ebraico e dell’umanità intera. E’ la fiamma della speranza che va difesa sempre, anche nell’Inferno terrestre del campo di sterminio di Auschwitz. Sarà proprio il volto di un bambino a strappare l’unico sorriso del film, quello di Saul pochi istanti prima che si compia il suo destino.
Il film di Laszlo Nemes non si pone sulla scia del genere memorialistico della Shoah, perché manca sia di descrittivismo sia di sentimentalismo. Senza rispetto, il regista ci costringe ad aderire epidermicamente al vortice delle sensazioni ed ossessioni di Saul. Usciti dalla sala, si resta storditi ma più forti nella convinzione del dovere morale di difendere sempre e comunque, in ogni momento della storia, il sacro valore della civiltà contro la barbarie, sempre in agguato.
 
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